domenica 21 giugno 2009

I cinque miti della transizione verso gli agrocarburanti

I cinque miti della transizione verso gli agrocarburanti
DI ERIC HOLTZ-GIMÉNEZ

Direttore generale di Food First - Institute for Food and Development Policy, Oakland (Stati uniti).
Biocarburanti... Il termine evoca l'immagine accattivante di un'energia rinnovabile
pulita e inesauribile, parla di fiducia nella tecnologia e di un progresso vigoroso e
compatibile con la protezione permanente dell'ambiente. Consente all'industria, a
uomini e donne del mondo politico, alla Banca mondiale, alle Nazioni unite e anche al
Gruppo intergovernativo di esperti sull'evoluzione del clima (Giec) di presentare i
carburanti prodotti da mais, canna da zucchero, soia e altre colture come la prossima
tappa di una transizione morbida ancora da definire, dal picco della produzione
petrolifera ad un'economia energetica basata su risorse rinnovabili.

I programmi sono già molto ambiziosi. In Europa, è previsto che combustibili
provenienti dalla biomassa coprano il 5,75% della domanda di carburanti stradali nel
2010 e il 20% nel 2020. Gli Stati uniti puntano a trentacinque miliardi di galloni
l'anno. Sono obiettivi che superano di parecchio le capacità produttive dell'agricoltura
dei paesi industrializzati dell'emisfero Nord. L'Europa dovrebbe utilizzare il 70%
delle sue terre coltivabili per vincere la scommessa; tutti i raccolti di mais e
soia degli Stati uniti dovrebbero essere trasformati in etanolo e biodiesel. Una tale
trasformazione stravolgerebbe il sistema alimentare delle nazioni del Nord. Così i
paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse)
guardano all'emisfero Sud per far fronte ai propri bisogni.

Indonesia e Malaysia aumentano rapidamente le piantagioni di palme da olio per
riuscire a coprire il 20% del mercato europeo del biodiesel.
In Brasile - dove la superficie di terre coltivabili dedicate alle colture per carburanti
occupa già una porzione di territorio pari alle dimensione di Regno unito, Paesi Bassi,
Belgio e Lussemburgo riuniti - il governo prevede di moltiplicare per cinque la
superficie riservata alla canna da zucchero. Il suo obiettivo è sostituire il 10% del
consumo mondiale di benzina entro il 2025.

La rapidità con la quale si effettuano mobilitazione di capitali e concentrazione di
potere all'interno dell'industria degli agrocarburanti è stupefacente. Negli ultimi tre
anni, gli investimenti sotto forma di capitale di rischio (venture capital) si sono
moltiplicati per otto. I finanziamenti privati inondano le istituzioni di ricerca pubbliche,
come dimostra il mezzo miliardo di dollari di sovvenzioni concesso da Bp (ex British
petroleum) all'università della California.

I grandi gruppi petroliferi, cerealicoli, automobilistici e di ingegneria genetica
stringono importanti accordi di partenariato: Archer Daniels Midland company (Adm)
e Monsanto, Chevron e Volkswagen, Bp, DuPont e Toyota. Queste multinazionali
cercano di concentrare le loro attività di ricerca, produzione, trasformazione e
distribuzione relative ai nostri sistemi alimentari e di approvvigionamento di
carburanti. Ragione in più per chiarire bene, prima di salire su un treno già in corsa, i
miti che accompagnano la transizione verso gli agrocarburanti.

1. GLI AGROCARBURANTI SONO PULITI E PROTEGGONO L'AMBIENTE Poiché la
fotosintesi utilizzata per queste colture sottrae gas a effetto serra dall'atmosfera e
dato che gli agrocarburanti possono ridurre il consumo di energia fossile, si pretende
che proteggano l'ambiente. Ma quando si analizza il loro impatto «dalla culla alla
tomba» - dal dissodamento della terra fino al loro utilizzo nei trasporti stradali - , le
limitate riduzioni di emissioni di gas a effetto serra sono annullate da quelle molto più
gravi provocate da deforestazione, incendi, drenaggio delle zone umide, metodi di
coltura e perdite di carbonio del suolo. Ogni tonnellata di olio di palma emette
altrettanta anidride carbonica, se non di più, del petrolio. L'etanolo prodotto da
canna da zucchero coltivata su foreste tropicali dissodate emette una volta e mezzo
gas a effetto serra rispetto alla produzione e all'utilizzazione di una quantità
equivalente di benzina. Quando commenta l'equilibrio planetario del carbonio, Doug
Parr, massimo responsabile scientifico di Greenpeace, dichiara categoricamente: «Se
si producesse anche solo il 5% di biocarburanti abbattendo foreste primarie ancora
esistenti, si perderebbe la totalità del progresso sul carbonio». Le colture industriali
destinate a carburanti necessitano di spargimenti massicci di concimi prodotti dal
petrolio il cui consumo mondiale - attualmente 45 milioni di tonnellate l'anno - ha già
raddoppiato il livello di azoto biologicamente disponibile sul pianeta,
contribuendo così fortemente alle emissioni di ossido nitroso, un gas a effetto serra il
cui potenziale di riscaldamento globale è trecento volte più alto di quello del CO2
[biossido di carbonio]. Nelle regioni tropicali - da dove presto proverrà la maggior
parte degli agrocarburanti - i concimi chimici hanno da dieci a cento volte più
effetto sul riscaldamento planetario che nelle regioni temperate.

Ottenere un litro di etanolo richiede da tre a cinque litri di acqua d'irrigazione e
produce fino a tredici litri di acque reflue. Per trattare queste acque di scolo occorre
l'equivalente energetico di centotredici litri di gas naturale, il che aumenta la
probabilità che vengano semplicemente rilasciate nell'ambiente inquinando corsi
d'acqua, fiumi e falde freatiche. L'intensificarsi delle colture energetiche per
carburanti provoca anche un aumento del ritmo di erosione dei suoli, in particolare
nel caso della produzione di soia - 6,5 tonnellate per ettaro l'anno negli Stati uniti;
fino a 12 tonnellate in Brasile e in Argentina.

2. GLI AGROCARBURANTI NON PROVOCANO DEFORESTAZIONE I sostenitori degli
agrocarburanti affermano che le colture effettuate su terre ecologicamente degradate
migliorano l'ambiente. Forse il governo brasiliano aveva questo in mente quando ha
riqualificato circa 200 milioni di ettari di foresta tropicale secca, praterie e paludi, in
«terre degradate» e adatte alla coltura. In realtà, si trattava di ecosistemi di grande
biodiversità nelle regioni del Mata Atlántica, del Cerrado e del Pantanal, occupate da
popolazioni indigene, contadini poveri e grandi aziende per allevamento estensivo di
bovini.

L'introduzione di colture destinate agli agrocarburanti avrà molto semplicemente
come risultato quello di ricacciare queste comunità verso la «frontiera agricola»
dell'Amazzonia, là dove le tecniche devastatrici di deforestazione sono fin troppo
note. La soia fornisce già il 40% degli agrocarburanti del Brasile. Secondo la Nazional
aeronautics and space administration (Nasa), più i prezzi della soia aumentano, più si
accelera la distruzione della foresta umida dell'Amazzonia - 325.000 ettari l'anno, al
ritmo attuale.

In Indonesia, le piantagioni di palma da olio destinate alla produzione di biodiesel -
detto «diesel della deforestazione» - sono la causa principale dell'arretramento della
foresta. Verso il 2020, queste superfici saranno triplicate e raggiungeranno i 16,5
milioni di ettari - le dimensioni di Inghilterra e Galles insieme - , con il risultato di una
perdita pari al 98% del manto forestale. La vicina Malaysia, primo produttore
mondiale di olio di palma, ha già perso l'87% delle sue foreste tropicali e continua a
distruggere quelle che restano a un ritmo del 7% l'anno.

3. GLI AGROCARBURANTI AIUTERANNO LO SVILUPPO AGRICOLO Ai tropici, 100
ettari destinati all'agricoltura familiare creano trentacinque posti di lavoro; la palma
da olio e la canna da zucchero dieci, gli eucalipti due, la soia appena mezzo. Fino a
non molto tempo fa, gli agrocarburanti erano destinati soprattutto ai mercati locali e
sub-regionali. Anche negli Stati uniti, la maggior parte delle aziende che producono
etanolo, di taglia relativamente modesta, erano proprietà degli agricoltori. Con
l'attuale boom, entra in gioco la grande industria, creando economie di scala
gigantesche e centralizzando lo sfruttamento.

I gruppi petroliferi, cerealicoli e i produttori di colture transgeniche rafforzano la loro
presenza lungo tutta la catena di valore aggiunto dei agrocarburanti. Cargill e Adm
controllano il 65% del mercato mondiale dei cereali; Monsanto e Sygenta dominano il
mercato dei prodotti geneticamente modificati. Per le semenze, gli input, i servizi, le
trasformazioni e la vendita dei loro prodotti, gli agricoltori che coltivano per gli
agrocarburanti saranno sempre più dipendenti da un'alleanza di società fortemente
organizzate. È poco probabile che ne traggano dei guadagni. Più probabilmente, i
piccoli coltivatori saranno espulsi dal mercato e dalle loro terre. Centinaia di migliaia
sono già stati gli spostati nella «repubblica della soia», una regione di più di 50
milioni di ettari nel sud del Brasile, il nord dell'Argentina, il Paraguay e l'est della
Bolivia.

4. GLI AGROCARBURANTI NON CAUSERANNO FAME Secondo la Food and agricultural
organization (Fao), la quantità di cibo nel mondo potrebbe fornire a tutti una razione
giornaliera di 2.200 calorie sotto forma di frutta fresca e secca, legumi, prodotti del
latte e carne. Eppure, la povertà fa sì che 824 milioni di persone continuino a
soffrire la fame. Ora, la trasformazione che si annuncia crea concorrenza tra la
produzione alimentare e quella di carburanti nell'accesso alla terre, all'acqua e alle
risorse. Un esempio concreto lo si ha oggi in Messico. Avendo smantellato le barriere
doganali nel quadro dell'Accordo di libero scambio nord-americano (Nafta), il Messico
importa ormai il 30% del mais dagli Stati uniti. L'aumento crescente della domanda di
etanolo nel paese ha provocato un'enorme pressione sul prezzo di questo cereale,
che ha toccato, nel febbraio 2007, il livello più alto degli ultimi dieci anni, provocando
un drammatico aumento del prezzo della tortilla - piatto base dalla popolazione
messicana. Di fronte alle manifestazioni di protesta di una popolazione povera colpita
dalla fame, il governo di Felipe Calderón, al termine di un incontro con le
multinazionali dell'industria e della distribuzione, ha dovuto limitare al 40% l'aumento
del prezzo della tortilla fino al prossimo agosto.

Approfittando della situazione, il Centro di studi economici del settore privato (Ceesp)
ha pubblicato una serie di «studi» in cui si afferma che l'uscita dalla crisi, per il
Messico, passa per la produzione di mais per agro-combustibili e che questo «deve
essere transgenico». Su scala mondiale, i più poveri spendono già dal 50 all'80% del
reddito familiare per l'alimentazione. Patiscono quando gli alti prezzi delle colture per
carburanti fanno aumentare il prezzo degli alimenti.

L'Internazional Food Policy Research Institute (Ifpri, Istituto internazionale di ricerca
sulle politiche dell'alimentazione) di Washington ha previsto che il prezzo degli
alimenti di base aumenterà dal 20% al 33% nel 2010 e dal 26% al 135% nel
2020. Ora, ogni volta che il costo degli alimenti aumenta dell'1%, 16 milioni di
persone precipitano nell'insicurezza alimentare. Se continua la tendenza attuale, nel
2025, 1,2 miliardi di abitanti potrebbero soffrire cronicamente la fame.
In questo caso, l'aiuto alimentare internazionale non sarebbe probabilmente di
grande aiuto, visto che il nostro surplus agricolo sarà andato...
nelle nostre riserve di benzina.

5. GLI AGROCARBURANTI DI «SECONDA GENERAZIONE» SONO A PORTATA DI MANO
Per rassicurare gli scettici, i sostenitori degli agrocarburanti amano affermare che
questi ultimi, attualmente prodotti a partire da colture alimentari, saranno presto
rimpiazzati da prodotti più compatibili con l'ambiente, come alberi a crescita rapida e
il Panicum virgatum (graminacea che raggiunge 1,80 metri di altezza). Cercano così
di rendere più accettabili gli agrocarburanti di prima generazione.
Sapere quali colture saranno trasformate in carburante non è significativo.

Le piante selvatiche non avranno un minor «impatto ambientale» perché la
commercializzazione ne trasformerà l'ecologia. Coltivate in modo intensivo,
migreranno rapidamente dalle siepi e dai terreni boscosi verso le terre coltivabili - con
le conseguenze ambientali collegate.

L'industria punta a produrre piante cellulosiche, geneticamente modificate - in
particolari alberi a crescita rapida - , che si decomporrebbero facilmente per liberare
zuccheri. Vista l'attitudine alla disseminazione già dimostrata dalle colture
geneticamente modificate, ci si possono aspettare contaminazioni massicce.

Qualsiasi tecnologia il cui potenziale permetta di evitare gli impatti più negativi sul
cambiamento climatico deve essere commercializzata su grande scala nei prossimi
cinque-otto anni. Prospettiva molto poco probabile nel caso dell'etanolo estratto dalla
cellulosa, prodotto che, finora, non ha mostrato alcuna riduzione di emissione di
carbonio. L'industria degli agrocarburanti sta scommettendo sui miracoli.

L'Agenzia internazionale dell'energia ritiene che, nei prossimi ventitré anni, a livello
mondiale si potranno fabbricare fino a 147 milioni di tonnellate di agrocarburanti. Un
simile volume produrrà molto carbonio, ossido nitroso, erosione, e più di 2 miliardi di
tonnellate di acque reflue. Ma, per quanto stupefacente possa apparire, tale
produzione arriverà soltanto a compensare la crescita annuale della domanda
mondiale di petrolio, che attualmente si può valutare in 136 milioni di tonnellate
l'anno. Il gioco vale la candela?

Per le grandi società cerealicole, sicuramente sì. Che si chiamino Adm, Cargill o
Bunge, sono i pilastri dell'agro-alimentare. Circondate da una moltitudine altrettanto
potente di trasformatori di materie prime e di distributori, a loro volta associati a
catene di supermercati da una parte e a società agro-chimiche, di semenze e di
macchine agricole, dall'altra. Su 5 dollari spesi in alimenti, 4 corrispondono all'attività
dell'insieme di queste società. Ma, da un po' di tempo, il settore produttivo soffre di
un'«involuzione»: poiché quantità crescenti di investimenti (input chimici, ingegneria
genetica e nuovi macchinari) non hanno aumentato il tasso di produttività
dell'agricoltura, il complesso agro-alimentare è costretto a spendere di più per
raccogliere meno. Gli agrocarburanti sono la risposta perfetta a questa involuzione.

Sovvenzionati e in fase di crescita, mentre il petrolio indietreggia, facilitano la
concentrazione delle industrie dell'alimentazione e dell'energia nelle mani degli attori
più potenti. Sfortunatamente, la transizione verso gli agrocarburanti soffre di una tara
congenita. Essi infatti entrano in competizione con l'alimentazione per quanto
riguarda terra, acqua e risorse. Sviluppati all'estremo, saranno utilizzati per
produrre... agrocarburanti. Una proposta patetica dal punto di vista termodinamico.
Ci obbligano a vivere al di sopra dei nostri mezzi. «Rinnovabile» non significa
infatti «senza limiti». Anche se le colture possono essere ripiantate, la terra, le
acque e gli alimenti restano limitati.

Di fatto, l'attrattiva di questi biocombustibili risiede nel fatto che potrebbero
prolungare l'economia fondata sul petrolio. Con una stima di circa 1.000 miliardi di
barili residui di riserve mondiali di petrolio convenzionale, un barile di petrolio tra non
molto potrà costare 100 dollari. E più il prezzo del petrolio sarà alto, più il costo di
produzione dell'etanolo potrà crescere pur rimanendo competitivo. Ed è proprio
questa la contraddizione per gli agrocarburanti di seconda generazione: man mano
che il costo degli idrocarburi aumenta, gli agrocarburanti di prima generazione
diventano più redditizi, scoraggiando così l'idea di investire nello sviluppo di quelli di
seconda generazione. Se il petrolio raggiunge gli 80 dollari al barile, i produttori di
etanolo possono permettersi di pagare oltre 5 dollari il moggio (circa 127 kg) di mais,
rendendolo così competitivo anche rispetto alla canna da zucchero. La crisi energetica
mondiale è potenzialmente una miniera che va dagli 80.000 ai 100.000 miliardi di
dollari per i gruppi alimentari e petroliferi. Non stupisce che non si sia spinti a
modificare le nostre abitudini di «sovra-consumo».

La transizione verso gli agrocarburanti non ha niente di inevitabile.
Molte soluzioni locali di sostituzione provate con successo sul terreno, efficaci a livello
energetico pur restando centrate sui bisogni degli abitanti, sono già operative per
produrre alimenti e energia senza minacciare l'ambiente, o i mezzi di sussistenza.
Negli Stati uniti, decine di piccole cooperative locali producono biodiesel - spesso a
partire da olio vegetale riciclato. La maggioranza delle cooperative di etanolo del
Middle West sono - per il momento - nelle mani degli agricoltori locali. Così come i tre
quarti circa delle raffinerie di etanolo del Minnesota, a cui sono state concesse
notevoli sovvenzioni.

Sarebbe inaccettabile che i paesi del Nord spostassero il fardello del loro sovraconsumo
verso il Sud del pianeta, semplicemente perché i paesi intertropicali hanno
più sole, pioggia e terre coltivabili.

Articolo pubblicato su Le Monde Diplomatique – giugno 2007

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